Un agguato misterioso
Il primo incontro col maggiore Orazio Zardini avviene a Cortina, di fronte all’entrata principale della chiesa, proprio nel momento in cui le campane cominciano a suonare a morto, e dalle vie che sboccano sulla piazza vedo venire verso la chiesa non uno, ma ben due funerali. Mi rendo conto che il momento non è il più adatto per intavolare una chiacchierata, soprattutto per farmi raccontare qualcosa di un po’ allegro, ma nemmeno posso lasciarmi sfuggire un’occasione cosi favorevole.
Pochi istanti prima, l’amico Roberto, il professore, al quale stavo chiedendo di indicarmi qualche alpino da intervistare, nel vedere il maggiore Zardini passare per la strada, mi aveva detto: « Eccone uno! Il signor Orazio Zardini… É stato in Africa, nella Campagna d’Abissinia, poi ha fatto la seconda guerra mondiale. So che è stato anche prigioniero dei tedeschi… Blocchiamolo prima che ci scappi! ».
Arriva intanto il primo dei due funerali. Il professore mi spiega che si tratta di un ragazzo caduto in montagna durante un’arrampicata. La folla è enorme. Sui volti della gente si notano i segni di una viva commozione, specialmente fra i giovani. Accanto alla bara, ragazzi e ragazze di tutte le età, poi guide alpine, maestri di sci che indossano la loro divisa e fra i quali, nonostante i capelli grigi, riconosco Bruno Alberti, il campione degli anni precedenti alla venuta di Gustavo Thoeni. Il triste corteo sfila lentamente davanti a noi, subito seguito dal secondo funerale.
Zardini, il professore ed io stiamo a guardare, in silenzio, poi, quando tutti sono ormai entrati nella chiesa, riprendiamo il discorso che abbiamo interrotto subito dopo le presentazioni. Il professore, velocissimo, spiega al maggiore il motivo per cui abbiamo troncato così bruscamente la sua passeggiata, e questi, con altrettanta rapidità, riesce a farsi venire in mente due o tre episodi capitati durante i sette anni da lui trascorsi in guerra. Ma Zardini non sta a raccontarmeli per disteso. Mi dice soltanto di prenderne nota sul mio taccuino in modo da poterglieli ricordare la prossima volta che ci incontreremo. Sotto la sua dettatura scrivo così sul notes una serie di scarabocchi che, appena rientro in albergo, riesco a decifrare e a riscrivere un po’ meglio: « Abissinia: agguato misterioso; prigionia in Polonia: radio-gavetta, il regolo, un cappotto troppo stretto ».
Rivedo il maggiore Zardini due giorni più tardi, e ci parliamo a lungo nell’accogliente saletta dell’Hotel Impero. Ho con me il taccuino e gli appunti presi nel precedente incontro, ma il maggiore preferisce cominciare il suo racconto molto prima della guerra d’Abissinia, dal 1916, dal giorno in cui gli austriaci avevano bombardato Cortina. Zardini aveva allora soltanto cinque anni, essendo della classe 1911.
Cortina, allo scoppio della prima guerra mondiale, apparteneva all’Austria, ma era stata subito occupata dalle truppe italiane che l’avevano tenuta fino all’autunno del 1917, Con la disfatta di Caporetto e il ritiro degli italiani da tutto il fronte dolomitico, Cortina era ripassata nelle mani degli austriaci. Ma nel 1916 il paese aveva subito un bombardamento. La canzone « bombardano Cortina, dicon che gettan fiori… » non sembra corrispondere poi tanto alla realtà. Altro che fiori!
Zardini, pur essendo allora molto piccolo, ricorda ancora questo importante fatto storico avvenuto nelle Dolomiti, e, più in particolare, ha serbato un curioso ricordo di uno di quei « fiori » che gli austriaci gettavano al di qua delle loro linee per mezzo dei loro cannoni.
Nel momento del bombardamento, Zardini si trovava in casa, al gabinetto. Un colpo di shrapnell, una specie di granata che, esplodendo, mandava a ventaglio una miriade di schegge e di pallini, era scoppiato proprio al di sopra della sua casa, uno di quei pallini micidiali era entrato dalla finestra dello stanzino. Dopo aver rotto il vetro, il proiettile era andato a sbattere contro una parete finendo poi per terra, sul pavimento, lasciando illeso il piccolo Orazio che, del tutto ignaro del grave momento che Cortina stava vivendo, era invece alle prese con un normalissimo problema di tutti i giorni.
Nel 1935-37 Zardini è in Abissinia con la Divisione Alpina « Pusteria », Battaglione « Feltre », col grado di sottotenente. Prende parte a tutte le battaglie più importanti e ritorna da quella Campagna con numerose bellissime fotografie da lui sviluppate sul posto dopo aver imparato a destreggiarsi fra pellicole e bagni più o meno azzeccati.
Anche l’acquisto della macchina fotografica è avvenuto per puro caso. E un cameriere del « Conte Grande », il transatlantico su cui il Battaglione compie il viaggio di andata, a proporgli l’affare. Zardini annusa che c’è aria di « patacca », ma decide egualmente per l’acquisto. E la macchinetta, sentendosi improvvisamente importante, visto che portano anche lei alla guerra, si comporta sempre bene e non fa sprecare al suo padrone nemmeno un fotogramma.
Tra i ricordi di quella lontana Campagna, che aveva come scopo la ricerca di « un posto al sole » anche per l’Italia, c’è l’episodio che sul taccuino ho segnato con la dicitura imboscata misteriosa. Era successo in una località a circa centocinquanta chilometri oltre Addis-Abeba. Il nome esatto di questa località l’ho anche riportato sul mio notes, ma adesso che devo ribatterlo a macchina non riesco proprio a capire che cosa diavolo io abbia scritto. Pazienza! Lo salto. Il nome non importa poi un gran che in questa vicenda.
Gli italiani avevano piazzato le tende del loro accampamento ad una certa distanza da un villaggio. La zona sembrava tranquilla. Soldati del Negus non se ne vedevano, e anche gli abitanti del villaggio avevano un’aria del tutto pacifica. Ma un mattino, una pattuglia era rientrata piuttosto frettolosamente dal suo giro di esplorazione attorno all’accampamento. Tre o quattro componenti di quella pattuglia erano un po’ mal conci, avevano la divisa in disordine senza più il cappello in testa, e le fasce attorno ai polpacci erano disfatte. A giustificazione delle condizioni in cui si erano ripresentati al loro reparto, gli uomini di quella pattuglia avevano detto di esser stati attaccati di sorpresa da un gruppo di indigeni, ma al loro comandante la cosa era sembrata subito abbastanza strana.
Nel racconto confuso e concitato dell’imboscata alla quale erano miracolosamente scampati c’era qualcosa che non quadrava. Infatti, nessuno di quei soldati presentava ferite di arma da fuoco, né ferite di coltello o di lance, o di frecce. Avevano invece tutti, ma specialmente i tre o quattro che erano più mal messi, ferite di altro genere. Più che ferite o Contusioni sembravano morsicature di insetti o punture di aghi o di spine. Ma ne avevano davvero parecchie, sparse un po’ dappertutto, specialmente sul viso, sul collo e sulle braccia.
Il comandante del Battaglione aveva subito deciso di fare piena luce su quella misteriosa imboscata, perché, se si fosse trattato veramente di un’azione compiuta dagli indigeni, voleva dire che anche l’accampamento avrebbe potuto subire un attacco da un momento all’altro, Inoltre voleva andare a fondo sulla questione delle ferite subite dai suoi uomini e scoprire la verità sulla misteriosa natura delle arrossature che punteggiavano la pelle dei componenti della pattuglia, finiti nel frattempo all’infermeria del campo in preda a dolori terribili.
Una squadra di alpini aveva allora lasciato l’accampamento verso quello che, stando alle indicazioni dei ricoverati all’infermeria, poteva essere il luogo dell’imboscata, ma non aveva trovato niente. Di tracce lasciate dagli indigeni non se ne vedevano, e tantomeno si erano trovati i segni dell’aggressione alla pattuglia italiana. Cerca di qua, cerca di là…
A forza di spostarsi, gli alpini erano arrivati in vista del villaggio. Gli abitanti erano gente pacifica, indifesa, che neanche volendo avrebbero potuto alzare un dito contro delle truppe ben armate e addestrate. Gli alpini, d’altronde, non avevano dato loro alcun motivo per farlo. Quando avevano avuto bisogno di viveri freschi, come carne o latte, erano andati al villaggio e li avevano regolarmente acquistati. Solo col passare dei giorni, galline e capretti vaganti ai bordi del villaggio avrebbero cominciato a fare una brutta fine, ma questo non era ancora potuto accadere, dato che l’accampamento italiano era arrivato da quelle parti soltanto quarantotto ore prima.
Gli alpini erano passati vicino alle capanne, ma gli indigeni avevano subito assunto un atteggiamento ostile nei loro confronti. Mentre le donne correvano a rifugiarsi nelle casupole di paglia e fango, gli uomini avevano formato un gruppetto e, sebbene fossero senza armi, erano dati incontro ai soldati, gridando e facendo gesti con le mani, Anche se non c’erano cartelli in vista con scritte ingiuriose, era una manifestazione di protesta bella e buona, e ce l’avevano proprio con i soldati italiani. Gli alpini, tuttavia, non capivano il perché di quella protesta. Due giorni prima, quando erano andati al villaggio per comperare i veri, i rapporti con gli abitanti erano stati più che amichevoli. C’era sino stato un piccolo scambio di doni fra il comandante italiano e il capo del villaggio, ma ciò che gli alpini stavano vedendo in quel momento era tutt’altra cosa.
Il capo si era fatto avanti, borbottando e agitando il pugno con fare minaccioso. Gli alpini gli si erano stretti attorno, tenendo i fucili a tracolla, per non peggiorare la situazione. Nella pattuglia c’era un ascaro che fungeva da guida, e anche un po’ da interprete, dato che stava imparando l’italiano. Costui si era messo a confabulare col capo del villaggio e si era fatto spiegare il motivo della sua arrabbiatura, P
iù o meno, la traduzione fatta dall’ascaro agli alpini deve essere stata questa: « Capo villaggio dire voi buoni soldati… Voi venuti per chiedere carne e latte, e noi avere dato carne e latte… Ma soldati venuti al levar del sole non volere carne e latte… Loro avere visto nostre donne e volere andare con nostre donne… Noi questo non piacere… Noi dare volentieri carne e latte, ma non volere dare nostre donne… Noi volere mandare via soldati cattivi, ma soldati avere armi… Noi non volere guerra, noi non avere armi… Nostre armi andare bene solo per caccia… Ma soldati non andare via… Noi allora usare api, molte api… Api volare, bsss, bsss… Api pungere soldati… Soldati fuggire, ma anche api fuggire… Ora noi essere senza api… ».
Dal libro “I racconti degli alpini – storie di naja e di guerra” di Ezio Capello
Nella foto di copertina Orazio Zardini in Abissinia – 1935