Voltago, 13 ottobre 1944: il giorno della paura e del coraggio.

Voltago, 13 ottobre 1944: il giorno della paura e del coraggio.

La testimonianza di Giambattista Arrigoni racconta la violenza cieca della guerra e la forza di chi scelse di resistere e sopravvivere.

 

VOLTAGO, 13 OTTOBRE 1944. TESTIMONIANZA DI UN PROTAGONISTA

Da “PROTAGONISTI” – Trimestrale dell’ISBREC nr. 60 del 1995

(Giambattista Arrigoni)

Chi avrebbe pensato il giovedì mattina, allorché incontravo Giovanni Della Lucia e mi accordavo con lui circa l’ora della partenza da Frassenè, che poche ore dopo sarebbero accaduti fatti così terribili?

L’appuntamento era per le tredici.

Salimmo in bicicletta ed imboccammo la discesa verso Agordo, per nulla presaghi dell’imminente pericolo e felici della bella corsa che ci attendeva.

Tutto andò bene fino a Voltago allorché, uscendo dal paese ed in prossimità del ‘Tre Corone”, una donna ci fece cenno di fermarci e ci avvertì che due autocarri tedeschi erano fermi subito dopo la curva, e che i militari fermavano tutti. Al momento pensammo di ritornare indietro, ma di lì a poco ci accorgemmo che altri soldati erano saliti a piedi in Paese per le scorciatoie, e che eravamo ormai in trappola.

Attendemmo circa mezz’ora nella speranza che il blocco venisse tolto dopodiché, ormai senza vie di uscita, provammo a ripartire verso Agordo con l’illusione che, magari qualificandoci come studenti che si recavano a scuola, i militari ci avrebbero lasciato passare. Giunti vicino agli autocarri un capitano ci fece cenno di fermarci e, senza nemmeno degnarsi di guardare i documenti che gli porgevamo, ci ordinò di sederci sul prato in attesa di ordini. Sapemmo subito che poco lontano da noi altri ostaggi erano come noi in attesa della loro sorte. Il camion davanti, sul quale alcuni soldati mangiavano allegramente pane e burro, era carico di una mitragliera e di molte cassette di munizioni, ed aveva al traino un lucente cannoncino dal quale, mezz’ora dopo, sarebbe uscito un fuoco d’inferno. Nel secondo camion, un magnifico 3 RHO LANCIA, evidente preda bellica, vi erano ancora cassette di munizioni ed alcune panche, sulle quali alcuni soldati canticchiavano.

Alle due e mezza due soldati, provenienti a piedi dal centro del paese, vennero ad annunciare che i camions potevano proseguire. Iniziava una tragedia!

Tutti i soldati salirono ai loro posti, e lo stesso capitano che ci aveva fermati ci ordinò:

“Tutti su!”, ed aggiunse: “Anche la bicicletta!”.

Giunti in centro del paese il nostro camion si fermò proprio davanti al Municipio.

Il compianto Dott. Giambattista Arrigoni

Dall’altro camion, poco distante, i soldati staccarono il cannoncino autotrainato, lo piazza­rono in direzione delle Malghe dell’ Agner, dove voci di spie avevano loro segnalato la presenza di insediamenti partigiani, ed aprirono tosto un fuoco infernale. Noi, costretti a rimanere in piedi sul camion, con la testa tra le centine, fungevamo da barricata-ostaggio. Se i partigiani avessero risposto al fuoco noi saremmo stati l’inevitabile bersaglio! In quel breve terrificante intervallo di tempo, che sembrò eterno, mi ricordai di alcune copie di un giornaletto clandestino dattiloscritto, che mio padre mi aveva incaricato di distribuire, e che avevo incautamente nelle tasche dei pantaloni. Una perquisizione mi sarebbe stata fatale! Era da poco cessato il fuoco del cannone, e noi cominciavamo a sperare che fosse finita così, allorché udimmo giù dal paese tre colpi di pistola. Dal trambusto che ne seguì capimmo subito che qualcosa di grave era accaduto.

Solo più tardi fummo informati che un soldato tedesco era stato ucciso, e ci rendemmo conto del perché della feroce vendetta che si andava consumando. Da alcune case comincia­rono a levarsi fumo e fiamme. In un’atmosfera terrificante si udivano solo urla e pianti. Poi ancora un altro colpo di pistola, con il quale, lo sapemmo più tardi, era stato giustiziato un ragazzino innocente come noi!

Mentre il paese bruciava, e noi attendevamo ormai la nostra ora, giunsero davanti al Municipio un’autoblinda ed altre tre vetture, da una delle quali, scortato da numerose SS, scese un colonnello urlante, con la faccia perfida della belva, il quale aizzò i suoi gridando:

“Bruciare I Bruciare! Banditen! Bruciare!”.

E come se non bastassero le lunghe colonne di fumo che si levavano dal paese in fiamme, il colonnello ordinò ai suoi giannizzeri di dar fuoco anche al Municipio.

Poi scese in Paese con tutto il suo seguito di macchine. Ritornò poco dopo con le macchine cariche di merce evidentemente rapinata e, impartito ancora qualche ordine secco e feroce, ripartì con tutto il suo seguito in direzione di Agordo.

Noi intanto, sempre in piedi sul camion e spettatori di tanta tragedia, a pochi passi dal Municipio dalla cui finestre uscivano crepitando fiamme e fumo, attendevamo ormai terrificati la nostra ora! Non avevamo capito se gli ultimi ordini del colonnello riguardassero per caso anche il nostro destino!

Partite le SS, gli altri militari, forse meno feroci o forse per salvare i documenti civici, ordinarono a noi cinque ostaggi ed a tre impiegati comunali di spegnere il fuoco.

C’era lì nei pressi un idrante, lungo la strada che andava in direzione dell’Asilo.

Cominciammo con dei secchi, ma senza alcun risultato. Qualcuno allora ebbe l’idea di sfondare la porta del magazzino degli attrezzi, e ne trasse delle maniche antincendio che collegammo all’idrante. Tutti ci davamo da fare a più non posso, ma dalle giunture forse senza guarnizioni era più l’acqua che usciva di quella che arrivava sul fuoco!

Nani della Lucia ed io ci eravamo piazzati alla manovra dell’idrante, il più lontano possibile dalle sentinelle tedesche che, fucile spianato, non ci perdevano d’occhio.

Ma sentivamo che stava arrivando il momento che avevamo a lungo atteso e meditato mentre eravamo sul camion. La fuga!

Un rastrellamento nazista

Avevamo ormai capito con certezza quale sarebbe stato il nostro destino se fossimo rimasti lì. Ostaggi, prigionieri dei Tedeschi. Il trasporto a Belluno, alla tristemente famosa Caserma Tasso. E poi?

Ci davamo da fare, per dimostrare obbedienza e buona volontà ma, non appena la nostra sentinella si allontanò un po’, con un balzo istantaneo mollammo il nostro idrante e tagliammo la corda!

Fummo certamente incoscienti, perché il paese era circondato, e se fossimo stati scorti da qualche soldato sarebbe stata la fine. Non ricordo bene, ma mi pare che in fondo a quella stradina ci fosse l’Asilo. Ricordo che entrammo dalla porta ed uscimmo scavalcando una finestra sul lato posteriore del fabbricato, verso la montagna. Sempre di corsa. Salimmo in mezzo al bosco, in direzione di Frassenè. Forse eravamo salvi! Udivamo giungere dal basso ordini secchi dei tedeschi che certamente si erano accorti della nostra fuga. Sparavano. E nella luce dell’imbrunire vedevamo ancora le fiamme levarsi dal paese.

Quando arrivammo a Frassenè, dalla direzione dei Laghetti, ci venne incontro il Parroco Don Giosuè Fagherazzi. Qualcuno lo aveva avvertito della nostra cattura e della nostra fuga, ed in paese ci aspettavano. Don Giosuè temeva che la presenza in paese di un noto collaborazionista potesse arrecare a noi ed al paese altri dolori ed altre tragedie.

A notte infatti i tedeschi arrivarono. Piazzarono il loro cannoncino sull’ultima curva a valle del paese e cominciarono a sparare all’impazzata. Noi avevamo un appartamento in affitto in casa dei Gnech, la prima del paese, dalla quale si vedeva tutto.

Seppi che Nani Della Lucia si era nascosto, credo, sotto il banco di un bar. lo mi misi a letto, fingendomi gravemente ammalato. Mia madre piangeva disperata. Con una candela accesa davanti all’immagine della Madonna!

I tedeschi vennero a cercarci. Rimasero in paese due giorni passando di casa in casa. Un tedesco entrò armato anche nella mia camera! Mia madre continuava a piangere, quasi sveniva. lo stralunavo gli occhi, con un panno bagnato in testa, ero grave!

Forse il tedesco non mi riconobbe, forse cascò nel tranello, o forse si impietosì vedendo mia madre!

Finalmente dopo due giorni se ne andarono. Eravamo salvi!

 

 

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